Era il 1873 quando l’Amministrazione provinciale di Parma, in seguito all’epidemia scoppiata in città, stabilì di trasferire provvisoriamente l’ospedale psichiatrico a Colorno, riadattando per l’occasione i locali dell’ex palazzo ducale e dell’ex convento di San Domenico. Passarono gli anni ma quella soluzione temporanea divenne sempre più definitiva, al punto che la parte posteriore della Reggia rimase adibita a manicomio della provincia fino alla sua chiusura. Una storia lunga un secolo e più, durante il quale l’inadeguatezza dei locali fu ribadita a più riprese senza produrre significativi cambiamenti né nella struttura né tantomeno nell’assistenza. Solo a metà degli anni sessanta iniziò una nuova fase. Una fase che vide Mario Tommasini impegnato in prima linea nel movimento che in quegli anni andava affermandosi e che avrebbe portato a trasformare il volto della psichiatria italiana.
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L’impegno di Tommasini
Foto da La fabbrica dei Matti [Centro studi Movimenti, Comune di Colorno]
Quando l’8 marzo 1965 il neo assessore provinciale alla Sanità e ai Trasporti Tommasini fece il suo ingresso nell’Ospedale Psichiatrico di Colorno, gli si presentò una situazione disumana. L’antica Reggia di Colorno, già palazzo ducale, importante residenza di campagna dei Farnese, dei Borbone e infine della duchessa di Parma Maria Luisa d’Austria, era diventata di fatto un carcere, con inferriate ad ogni finestra, con stanzoni poco riscaldati e affollati di malati che spesso venivano legati, chiusi a chiave e controllati a vista dagli infermieri attraverso degli spioncini. Venivano utilizzati con frequenza mezzi di contenzione, camicie di forza, elettroshock; negli sgabuzzini attigui alle camerate c’erano lunghi bastoni che gli infermieri usavano per mandare a letto i degenti. Gli infermieri operavano in una situazione di abbruttimento, educati alla paura e alla violenza; venivano infatti assunti in virtù della loro forza fisica non della loro professionalità. Il numero degli infermieri era inoltre molto basso (170 per 1200 malati) e ne conseguiva che tutti erano sottoposti a turni massacranti.
Moltissimi entravano in manicomio da piccoli e vi trascorrevano il resto della loro vita, altri erano alcolizzati, vagabondi, prostitute che non presentavano patologie psichiatriche. Una volta internati, perdevano ogni rapporto col mondo esterno e veniva loro tolta ogni forma di sicurezza quali la famiglia, il lavoro, la libertà; ne seguiva l’acquisizione di un modo d’essere e di comunicare lontano dai canoni culturali del mondo esterno.
Mario Tommasini intraprese immediatamente il processo di liberalizzazione della vita dei ricoverati la Giunta provinciale approvò alcune sue proposte come la riduzione dell’orario di servizio degli infermieri, l’assunzione di nuovo personale e l’acquisto di nuovi arredi per rendere più confortevole la vita nel fatiscente ospedale. Questa politica si scontrò con la direzione del manicomio, ancora legata alla psichiatria tradizionale.
L’occupazione
Foto da La fabbrica dei Matti [Centro studi Movimenti, Comune di Colorno]
Verso la fine degli anni sessanta, Parma fu al centro di dibattiti sulla psichiatria. Infermieri, operatori, lavoratori, insegnanti avevano aderito all’Associazione per la lotta contro le malattie mentali che, nata a Firenze, si proponeva di far conoscere gli orrori del manicomio. Fu organizzata una mostra fotografica in città che rappresentò un momento importante di informazione, anche perché era allora vietato fotografare i malati. Alcuni infermieri di Colorno, venuti a contatto con le nuove tendenze, cominciarono a rifiutare la brutalità dell’Ospedale Psichiatrico e durante uno sciopero sfilarono per le vie della città indossando la camicia di forza e mostrando alla gente gli strumenti di coercizione utilizzati sui degenti. Parma veniva così informata e coinvolta, veniva rivelata una realtà che pochi conoscevano. Sul finire del 1968 la contestazione studentesca raggiunse Colorno e un gruppo di universitari incontrò Mario Tommasini. Il 2 febbraio 1969, dopo un’assemblea a cui parteciparono studenti, amministratori, infermieri e parenti dei ricoverati, gli studenti presero possesso dell’ospedale psichiatrico e l’occupazione durò 35 giorni.
Di quel periodo Tommasini raccontava: “ …noi facevamo l’assemblea coi malati al mattino e insieme organizzavamo la vita del manicomio. Sono stati gli unici trentacinque giorni in cui non si è ammazzato nessuno e nessuno è stato picchiato. Tutte le sere partivano dal manicomio decine di giovani con decine di malati a fare dibattiti nelle chiese, nelle fabbriche, all’università”.
I degenti si dichiararono a favore dell’occupazione e firmarono in blocco una mozione in cui chiedevano la partecipazione alla gestione dell’ospedale, il diritto di riunirsi in assemblea e di avere le porte aperte, la dimissione dei malati in buona salute, l’eliminazione della sveglia alle 6, la possibilità di uscire durante la giornata. Il personale interno dell’ospedale assunse posizioni diverse tanto che un gruppo di infermieri controccupò per un paio d’ore l’ospedale.
La controccupazione, l’irruzione di un gruppo di neo-fascisti armati di spranghe e bombe molotov, gli attacchi della stampa a Tommasini e agli studenti determinarono la fine dell’occupazione. Sebbene non si possa affermare che l’opera di trasformazione dell’ospedale sia stata opera dell’occupazione, secondo Tommasini ne derivò il conseguimento di due importanti obiettivi: “Fece conoscere a tutta l’Italia le condizioni dei malati di mente e fu la dimostrazione che i degenti potevano addirittura gestire il manicomio, visto che per 35 giorni erano spariti metà degli infermieri e tutti i medici”.
L’arrivo di Franco Basaglia
Franco Basaglia [foto Carlo Cerati]
L’idea di Tommasini non aveva nulla a che vedere con la tradizionale terapia del lavoro che si riduceva allo sfruttamento del lavoro dei degenti ma era un modo nuovo di gestione della malattia che partiva dalla risocializzazione dei malati. La follia diventava un problema della comunità da cui era stata da sempre bandita. Le notizie delle nuove esperienze psichiatriche realizzate a Gorizia spinsero Tommasini a cercare l’incontro con Franco Basaglia. Iniziò così un rapporto di amicizia e collaborazione che culminò nel 1970 con la nomina di Basaglia a direttore dell’Ospedale di Colorno. Lo psichiatra rimase a dirigere il manicomio fino al 1971. La sua presenza portò ad un processo di graduale riorganizzazione dell’ospedale secondo i principi della psichiatria comunitaria, una disciplina sviluppatasi fin dagli anni quaranta nei paesi anglosassoni nel tentativo di creare nuove modalità di approccio alla malattia mentale mettendo il paziente, e non la sua malattia, al centro dei processi riabilitativi. Nell’ottobre del 1970 Basaglia scriveva: “Il nuovo atteggiamento che il pubblico acquisterà nel tempo verso l’Ospedale psichiatrico riabilitato permetterà di proseguire l’opera di decentramento di nuove piccole strutture psichiatriche che saranno vissute come luogo di cura e non come luogo di invio e deposito di persone emarginate”.
Chi era Basaglia
“Di Basaglia sapevo ben poco…era un professore ma non sembrava rassomigliare agli altri. Diceva, da quel che avevo sentito, che se il malato si trattava diversamente, anche la malattia si modificava”. Tommasini incontra per la prima volta Franco Basaglia a Padova. Un incontro fondamentale che dà inizio ad una stretta collaborazione che portò il famoso psichiatra a Colorno a dirigere il manicomio.
Franco Basaglia nacque a Venezia l’11 marzo 1924. Laureatosi in Medicina nel 1949 a Padova, nel 1953 si specializza in Malattie nervose e mentali, unendosi in matrimonio con Franca Ongaro, che fu coautrice di alcune opere sulla psichiatria e deputata di Sinistra Indipendente.
Nel 1958 lavorò presso l’Università di Padova, come assistente presso la Clinica di malattie nervose e mentali ed ottenne la libera docenza in Psichiatria. All’epoca il prorettore dell’ateneo di Padova era Massimo Crepet, amico personale di Basaglia.
Per le sue idee innovative e rivoluzionarie Basaglia non venne bene accolto in ambito accademico, cosicchè nel 1961 decise di rinunciare alla carriera universitaria e di trasferirsi a Gorizia.
Fu direttore dal 1961 dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia dove vi fu un forte impatto con la realtà manicomiale: c’era la massima segregazione dei malati mentali, la contenzione, la camicia di forza e l’elettroshock. Basaglia sosteneva con i medici e gli infermieri dell’ospedale psichiatrico che “Un malato di mente entra nel manicomio come persona per diventare una cosa. Il malato, prima di tutto, è una persona e come tale deve essere considerata e curata (…) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”.
Basaglia applicò un moderno metodo terapeutico consistente nel non considerare più il malato mentale alla stregua di un individuo pericoloso ma al contrario un essere del quale devono essere sottolineate, anzichè¨ represse, le qualità umane. Il malato è di conseguenza in continui rapporti con il mondo esterno, in quanto gli è permesso di dedicarsi al lavoro e al mantenimento dei rapporti umani. Basaglia si avvicina all’antipsichiatria, che rifiuta il modello medico biologico della malattia. Per il trattamento dei casi singoli essa riconosce validi esclusivamente gli interventi di ordine psicoterapico e quelli politico-sociologici che avrebbero il compito di suscitare nel malato la presa di coscienza della vera origine della propria sofferenza; collega la prevenzione a un radicale rinnovamento del sistema sociale. Per le sue idee Basaglia fu in parte osteggiato anche negli stessi ambienti psichiatrici. Nel 1969 lo troviamo all’ospedale di Colorno a Parma e due anni dopo direttore del manicomio San Giovanni di Trieste. E’ il periodo, dove sono ancora caldi i fermenti del 1968, che precede la chiusura dei manicomi e la promulgazione della legge di riforma psichiatrica. Nell’agosto del 1980 Basaglia muore nella sua casa a Venezia, dopo una lunga malattia.
Verso la chiusura del Manicomio
Foto da La fabbrica dei Matti
[Centro studi Movimenti, Comune di Colorno]
Dal 1970 cominciò una massiccia opera di dimissioni dall’Ospedale Psichiatrico, di malati che venivano inseriti nel mondo del lavoro. Gli ex internati vennero gradualmente inglobati in una società che, fino a poco tempo prima, ne aveva ignorato l’esistenza. Furono allestiti 250 appartamenti per i dimessi e l’amministrazione provinciale li sostenne con sussidi mensili. Anche altre persone, tra cui alcuni industriali vennero coinvolti economicamente. L’esperienza di Colorno fu la dimostrazione che per la diagnosi e la terapia di una malattia mentale è necessario spingersi oltre e cercare la persona nel malato. Si dimostrò poi che la malattia è parte del territorio e che per essere curata non deve essere strappata dal suo ambiente ma curata al suo interno.
Il 13 maggio 1978 veniva emanata la Legge 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” alla quale Basaglia come promotore ha dato il nome (Legge Basaglia). Fu il provvedimento quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale e medica, basata sulle nuove concezioni psichiatriche, promosse e sperimentate in Italia da Franco Basaglia. Prima di allora i manicomi erano poco più che luoghi di contenimento fisico, dove si applicava ogni metodo di contenzione e pesanti terapie farmacologiche e invasive, o la terapia elettroconvulsivante. Le intenzioni della Legge 180 erano invece quelle di ridurre le terapie farmacologiche ed il contenimento fisico, instaurando rapporti umani rinnovati con il personale e la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati da ambulatori territoriali.
Per saperne di più
Un ricordo di Mario Tommasini di Paolo Migone (nella sezione documenti)
Eretico per amore di Bruno Rossi
La fabbrica dei matti di Margherita Becchetti, Ilaria La Fata e Maria Teresa Moschini
www.francobasaglia.it
Legge 180/1978 (nella sezione documenti)