“Un giorno avevo portato a Vigheffio la mia bambina, Barbara. C’era un poco di neve sui campi, ma già, appena sotto lo strato bianco, si intravedeva il verde del grano che cominciava a germogliare. Martino aveva preso per mano la bambina. Erano andati a camminare sulla neve, nel sentiero che si indovinava tra i campi. I contadini attorno avevano sempre gli occhi su quel che faceva la gente nuova della fattoria. Dicevano: Quell’assessore deve essere proprio matto: affidare la bambina a uno venuto da Colorno”.
Martino era un contadino di 50 anni che ne aveva passati 25 in manicomio. Fu uno dei primi abitanti della Fattoria di Vigheffio, un progetto che rappresenta una delle battaglie più importanti di Mario Tommasini per ricollocare i dimessi dal manicomio.
L’idea della fattoria
L’idea di far diventare la Fattoria di Vigheffio un luogo abitabile per i malati psichiatrici nasce quasi clandestinamente. La Provincia di Parma disponeva di un podere a pochi chilometri da Parma, a Vigheffio. Centocinquantamila metri quadrati di terreno, con una casa colonica e una stalla, che dovevano essere destinati a istituto per handicappati gravi, un progetto però che fu poi accantonato. Fu in quel momento che Tommasini pensò di utilizzare la fattoria per i dimessi dal manicomio. I primi due da sistemare avevano anni di internato alle spalle, ma occorreva firmare le dimissioni e non essendo i medici disposti a farlo Tommasini decise di prendersi l’impegno in prima persona assumendosi la responsabilità della loro uscita (in seguito arrivò a firmare cento dimissioni). La Fattoria era disastrata, non c’era elettricità né mobilio. In modo semi clandestino furono iniziati piccoli lavori che portarono nel giro di sei mesi a sistemare alcune stanze. Da due gli ospiti divennero sei. Fu organizzato il lavoro nei campi e si seminò parte del podere per produrre frumento. Gli ospiti di Vigheffio iniziavano un nuovo modo di vivere con la possibilità anche di socializzare con i contadini dei terreni limitrofi che a poco a poco imparavano a vedere i “manicomiali” con occhi diversi, come persone capaci di lavorare, di curare gli animali, di dialogare. Ma il progetto non venne riconosciuto subito. Per un anno la Fattoria fu tenuta in piedi senza una delibera amministrativa. Fu il presidente della Provincia Giuseppe Righi che la riconobbe come “luogo protetto”, dopo che fu chiamato a far visita al podere per rendersi conto di come tutto funzionasse senza rischi né per gli ospiti né per gli abitanti vicini. Durante la visita era presente anche il prefetto, il quale invitò Righi a procedere con quell’esperimento e alla ristrutturazione dell’edificio.
La ristrutturazione del podere
Nel 1974 la Fattoria ospitava una decina di persone. Era stato allestito un bar, un allevamento di galline e continuava l’attività nei campi. Anche da Parma la gente veniva a passare qualche ora di tranquillità. In quegli anni arrivò dalla Regione il primo contributo per la ristrutturazione con una sovvenzione di 140 milioni. Un trampolino di lancio importante che portò in realtà ad un intervento del valore di oltre un miliardo. Questo perché ci fu un coinvolgimento generale della popolazione. Sollecitati in riunioni e assemblee, coinvolti nell’idea ispiratrice del restauro, decine e decine di operai e contadini lavoravano all’adattamento della struttura nel loro tempo libero versando anche contributi. Le imprese locali offrirono il materiale, dalle mattonelle agli infissi, mettendo a disposizione il proprio personale. Gli impianti per luce, acqua e gas furono installati gratuitamente dai lavoratori e dai tecnici dell’Azienda municipalizzata pubblici servizi, così come un impianto sperimentale e promozionale di pannelli solari per il riscaldamento. L’idea della Fattoria era travolgente. L’industriale milanese Bradlei, invitato a Vigheffio a visitare il podere, rimase entusiasta al punto che inviò la carta da parati per le stanze dei degenti e gli operai per installarla. L’industriale Renzo Salvarani s’impegnò invece ad occuparsi, a proprie spese e con i propri operai, della ristrutturazione e del risanamento totale dell’immobile, della copertura del tetto, del rimboschimento dell’area, della creazione di un parco giochi per bambini e dei mobili per gli appartamenti. La ristrutturazione della Fattoria aveva creato grande entusiasmo nei dimessi dal manicomio. Questo fu evidente anche nell’andamento del loro stato di salute secondo gli operatori. I dimessi (arrivati poi a venti) in quel periodo di attività non hanno mai avuto bisogno di ricoveri da crisi e l’uso dei farmaci era quasi scomparso. Proprio per il fatto di sentirsi utili e necessari, coinvolti in un progetto comune, quello di costruire insieme la propria casa e la propria vita. Sulla scia di Vigheffio nacquero poi altri laboratori protetti come l’Azienda Artigiana Provinciale, la cooperativa “Noi” e la “8 Marzo”.
Dal luogo protetto a centro sociale
Nel 1977 si decise di trasformare la Fattoria da luogo protetto in centro sociale. Un passaggio che avvenne dopo una consultazione popolare che coinvolse tutti quelli che avevano partecipato alla sua realizzazione: operai delle fabbriche, lavoratori delle aziende municipalizzate, imprenditori, artigiani, operatori del settore, banche, sindacati, scuole, giovani. La fattoria diventava così di Parma e dei suoi cittadini. Il risultato della consultazione fu quello di renderla un centro sociale per anziani, giovani, bambini con la nascita di diverse iniziative fra le quali la cooperativa agricola giovanile.